Nel 2017 è stato un colpo al cuore, per molti, scoprire da una ricerca pubblicata su Science Advance che siamo riusciti a riciclare appena il 9% dei rifiuti di plastica prodotti nel mondo. Un altro 12% è stato incenerito, spesso liberando fumi tossici. Il resto – quasi l’80% – è finito in discariche di ogni genere o, peggio, direttamente nell’ambiente.
Negli oceani, dove ogni anno si riversano tra 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate di plastica, i frammenti più piccoli sono scambiati per cibo dai pesci e si trovano addirittura nello zooplancton. Non potendo essere digeriti, risalgono quindi la catena alimentare e finiscono per accumularsi negli organismi che si trovano al vertice, esseri umani compresi.
Per di più, la plastica è presente in tracce anche nell’acqua che beviamo e nell’aria che respiriamo. Secondo una ricerca commissionata dal WWF all’Università di Newcastle (Australia), attraverso l’acqua ingeriamo circa 5 grammi di plastica a settimana, l’equivalente di una carta di credito. Quel che fa dentro i nostri corpi ancora non è dato sapere, per ora non si può escludere che possa diventare un veicolo di trasmissione per batteri e sostanze tossiche: ai frammenti di plastica si possono infatti legare agenti patogeni, metalli pesanti e composti sintetici pericolosi.
Sfruttando la pandemia di COVID-19, nei mesi scorsi le lobby della plastica non hanno perso l’occasione per invocare la revoca di ogni tassa e divieto sul monouso in procinto di entrare in vigore negli Stati Uniti, in Europa e in molti altri Paesi del mondo. Finora hanno collezionato qualche successo – in Italia l’introduzione della plastic tax è slittata al luglio 2021 – senza però riuscire a invertire la tendenza verso una progressiva regolamentazione.
Per il momento il settore si può consolare con il boom di richieste per mascherine e altri dispositivi di protezione contro il contagio.
Ma la battaglia si prospetta ancora lunga e dall’esito incerto.
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